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40 anni dopo

2 min readMay 29, 2025

Avevo appena otto anni, tanti sogni e ben pochi problemi. Una serata come tante, davanti alla televisione, aspettando la finale di Coppa dei Campioni. Tifoso viola, piccolo, ostinato, cresciuto a pane e Antognoni, eppure il calcio era già allora una lingua universale: Juve-Liverpool, la sfida delle sfide.

Poi le immagini. Improvvise. Inaspettate. Sgranate. Confuse, quasi irreali. La folla che si muove come in preda a un panico antico, da fine del mondo. Uomini che corrono, bambini che piangono, corpi che si accasciano. Una curva che cede, o forse è l’umanità intera a cedere, travolta da qualcosa che non ha nulla a che vedere con lo sport.

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Quarant’anni dopo, quel dolore non si è attenuato. È solo diventato più silenzioso, più sordo. Una ferita che ha smesso di sanguinare, ma non di bruciare.

All’Heysel non è morta solo la gente, sono morte le illusioni di un bambino. L’idea che il calcio potesse essere solo un gioco, un rito collettivo, un pretesto per esultare. Morì la leggerezza.

Da allora, ogni volta che sento parlare di “tifoserie calde”, di “rivali storiche”, di “clima infuocato”, mi torna alla mente quella curva spezzata. E penso che non ci siamo ancora perdonati abbastanza. Che non abbiamo imparato abbastanza. Che il mondo, quando decide di essere orribile, sa esserlo con una ferocia che lascia senza fiato.

Eppure siamo ancora qui. Con gli stessi colori addosso, ma con una memoria in più. Perché il rispetto, quello vero, non nasce dai comunicati stampa o dai minuti di silenzio: nasce dal ricordo.

E oggi, come se fossi ancora quel bambino di 40 anni fa, il mio pensiero va a quei trentanove nomi che non hanno fatto ritorno.

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Andrea Trapani
Andrea Trapani

Written by Andrea Trapani

Giornalista, appassionato di comunicazione. In rete fin da adolescente alla fine ha deciso di studiarla.📱

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